LA CALABRIA ALLA FINE DEL REGNO DI GIUSEPPE ED AL PRINCIPIO DI QUELLO DI MURAT
Intanto il brigantaggio riprendeva nuova vita nelle Calabrie, e taluni di què reggimenti assuefatti a questo genere di guerra, chiamati dalle provincie interne alla spiaggia del mare, con grande loro soddisfazione, furono destinati a ritornare nei villaggi che avevano lasciati.
Quest’ordine fu dato loro il 16 agosto, ma si volle che prima della loro partenza assistessero alla festa dell’imperatore che, come si sa, era celebrata il 15 dello stesso mese.
Infatti il 13 agosto l’esercito, tutto quanto riunito dirimpetto a Messina, s’ebbe una grande rivista seguita da salve d’artiglieria e di fucileria; la flottiglia era pavesata e messa in ordine di battaglia in presenza di tutta la marina inglese. Lo Stretto offriva uno splendido spettacolo e d’una maestà difficile a farsi comprendere anche a coloro che conoscono quel panorama unico al mondo. Con grande meraviglia di tutto l’esercito, nemmeno un colpo di cannone nemico non venne a turbare la festa.
Dopo la rivista, le milizie rientrarono nel campo dove occuparono il resto della giornata in giochi d’ogni specie.
Alle cinque gli ufficiali della guardia dettero un gran pranzo; alle nove vi fu un magnifico fuoco d’artificio, alle dieci trecento suonatori dettero il segnale del ballo, che ebbe luogo all’aria aperta, rischiarato da un’illuminazione che pareva, da Scilla a Reggio, una ghirlanda non interrotta di fiamme.
Il 16 a mattina, I reggimenti destinati a dar la caccia a’ briganti lasciarono il campo e partirono per Castrovillari.
Seguiamo uno di questi reggimenti e prendiamo il racconto pittoresco che ha lasciato, di questa campagna nell’interno, un ufficiale che li comandava.
Egli è che parla:
«Mentre l’esercito è riunito all’estremità della Calabria, l’interno di queste provincie, affidato alla guardia delle sue milizie urbane poco rispettate da’ briganti, è nuovamente in preda a’ più grandi disordini. Ciò ha determinato il re a distaccare alcuni battaglioni dal campo.
Arrivati a Nicastro il 20, la nostra marcia, invece di seguire la solita strada, fu diretta lungo la spiaggia per poter difendere in caso di bisogno i convogli che arrivano per la via di mare e che gli inglesi assalivano giornalmente.
Le nostre stazioni sono state assegnate a Castiglione, Amantea, Paola, Cetraro, Belvedere e Lungro. La piccola città d’Amantea, appoggiata ad una rupe scoscesa e sormontata da un vecchio castello che ha sostenuto un assedio ostinato nel 1806, è presso a poco deserta in questa stagione. Gli abitanti un po’agiati abbandonano questa rupe esposta, senza nessun riparo, a tutto l’ardore d’un sole infuocato che ingenera delle febbri maligne e putride. I pochi abitanti che vi trovammo rassomigliavano a spettri erranti intorno a dimore abbandonate.
La cosa è ben diversa nella graziosa città di Paola, molto popolata e piacevolmente posta sopra un’altura dove si respira un’aria pura e temperata. Le montagne che la circondano, coperte di belle foreste e di graziose casine di campagna, presentano un colpo d’occhio incantevole.
Questa città è luogo di nascita di San Francesco (detto di Paola) fondatore dell’Ordine dei Minimi e molto venerato da tutta la cristianità. I calabresi hanno una fiducia illimitata nella sua mediazione e niente non è più bizzarro della loro maniera d’invocarlo. Si vedono prosternati a’ pié della sua statua, passando intorno alla tesa del santo una cavezza di cui tengono l’estremità pronunciando le più ferventi preghiere.
Questo santo, che proibisce rigorosamente a’ suoi frati l’uso della carne e che non la permette se non con molta riservatezza a’ malati, avendo voluto procurare a quelli del convento di Paola dei piccioni che quegli ammalati ricusarono per eccesso d’austerità, questi uccelli furono d’allora in poi riguardati come sacri e si sono moltiplicati talmente che tutte le mura del monastero ne sono coperte.
Gli abitanti del paese, che li lasciano godere d’una pace profonda malgrado i grandi danni che cagionano nelle campagne, sono persuasi che, se si osasse tirar loro contro, la canna del fucile creperebbe ed ucciderebbe infallibilmente il sacrilego cacciatore. Così il sindaco ci consigliò di fare rispettare quest’oggetto del loro culto, temendo che in caso contrario ne nascesse una sommossa.
A Belvedere abbandonammo la spiaggia del mare dopo aver distaccato una compagnia che doveva occupare la batteria di Cirella, posta sulla costa poche miglia più lungi. Attraversammo alte montagne coperte di folte foreste e tagliate da profondi valloni. Questa parte della Calabria è una vasta solitudine abbandonata agli uccelli di rapina, ai lupi ed a cinghiali. E attraversata da sentieri coperti da un’ombra impenetrabile ai raggi del sole.
Dopo aver fatto venticinque miglia in questa contrada tanto singolarmente pittoresca, arrivammo al villaggio di Lungro, presso il quale trovasi una montagna di salgemma esercitata senza intelligenza e senza attività, eppure potrebb’essere della più grande utilità per tutta la Calabria e potrebbe fruttare una rendita considerevole al governo. L’indomani scendemmo per quattro ore per sentieri spaventosi, infine, dopo undici giorni di marcia, siamo arrivati a Castrovillari, oppressi dalla stanchezza e soprattutto spossati dal calore soffocante che regna su quelle spiagge insalubri esposte per tutta la giornata ad un sole infuocato.
La parte del circondario di Castrovillari, situata all’entrata della Calabria, era in piena insurrezione quando noi vi giungemmo. Gli abitanti che avvicinano Campotenese intercettavano le comunicazioni con la capitale ed i convogli di danaro diretti al campo con deboli scorte correvano sempre rischio d’essere presi.
Il nostro capo di battaglione, nominato comandante superiore del circondario, aveva ordine di far occupare le gole di Campotenese mediante posti trincerati e di servirsi di tutti i mezzi che erano in poter suo per sottomettere la popolazione insorta. Questa operazione presentava grandi difficoltà in ragione della natura de’
luoghi e del carattere degli abitanti selvaggi, feroci ed ignoranti per eccesso. Inoltre, noi non conoscevamo punto questa parte della Calabria ed il battaglione, considerabilmente indebolito a causa delle malattie e de’ distaccamenti tolti, non aveva più altro che trecentocinquanta uomini disponibili.
Dopo un riposo di pochi giorni, partimmo per Mormanno, borgo considerevole che, a ragione della grande agiatezza di cui godono, gli abitanti non avevano ancora osato togliersi interamente la Maschera. Noi vi entrammo senza difficoltà, ma nella notte tre soldati, usciti imprudentemente da una chiesa ove erano accasermati, furono massacrati a colpi di pugnale, ciò che indicava sufficientemente le cattive disposizioni degli abitanti a nostro riguardo. Il comandante fece subito arrestare il sindaco, gli aggiunti e quattro de’ principali proprietari che non potettero, o non vollero, mai consegnare gli autori di quell’assassinio, Bisognò contentarsi di ritenerli come ostaggi perché facessero garanzia della tranquillità de’ loro concittadini e perché somministrassero, sotto la loro responsabilità personale, guide sicure per poter percorrere la contrada.
Dopo aver lasciato un distaccamento che si trincerò in un convento per guardia degli ostaggi e servirci, occorrendo, per andare a percorrere i villaggi insorti, attraversammo montagne orribili, valli profonde ove ad ogni passo vi erano a temere delle imboscate, ciò che ritardava la nostra marcia, essendo dappertutto
obbligati a farci precedere da esploratori. I meschini villaggi pe’ quali passavamo non avevano altri abitanti che donne, ammalati o vecchi. Tutta la popolazione fuggiva al nostro avvicinarsi. Ma su qual punto andava a riunirsi? Era importante di saperlo per premunirsi contro un assalto improvviso. Alcuni distaccamenti, mandati a fare indagini per arrestare I primi contadini che s’incontrassero, ricondussero due pastori, due selvaggi di cui si poteva appena comprendere il dialetto. Dopo molte difficoltà, e dopo aver fatto finta di volerli fucilare per obbligarli a parlare, ci dissero che una riunione di parecchie migliaia d’uomini ci aspettava in una gola che bisognava necessariamente passare per continuare la nostra operazione. Partimmo immediatamente sperando di sorprenderli, e facendo grandi giri per boschi poco facili ad attraversarsi, ed arrivammo senza essere scoperti ed una posizione che dominava quella degli insorti.
Ce ne avvicinammo con la più grande precauzione ed uscendo improvvisamente da un bosco molto folto vedemmo una moltitudine di contadini coricati senz’ordine, senza preveggenza e che per la maggior parte dormivano.
Risvegliati bruscamente a colpi di fucile, presero subito la fuga lasciando parecchi morti e feriti. Noi gli incalzammo con la baionetta ai reni fino ad un precipizio in fondo al quale trovasi il villaggio di Orsomazzo.
Sarebbe difficile trovare una posizione più orribile e più straordinaria. Circondato da ogni parte da alte montagne che s’innalzano a picco come muri, sembra che questo villaggio sia posto in fondo ad un pozzo. Vi si discende per mezzo d’una rampa scoscesa, seguendo le sinuosità d’un torrente che cade con fracasso e forma delle belle cascate. Questo torrente attraversa il villaggio donde esce per una fenditura della roccia molto stretta e viene di poi a render fertile una campagna eccessivamente ridente e ben coltivata che offre un contrasto straordino coll’orrore che ispira quell’orribile soggiorno, dove pare inconcepibile che gli uonini abbiano potuto fissare la loro dimora. Il sentiero che costeggia questo torrente, al suo uscire dal villaggio, è scavato nella roccia, ed è impossibile d’incamminarvisi con sicurezza se uno non è padrone delle alture.
Dopo aver fatto custodire l’entrata principale di quell’orribile luogo da un distaccamento posto sopra una montagna, la sola che si possa occupare militarmente, ma che disgraziatamente si trovava un poco lontana, scendemmo in Orsomazzo per procurarci dei viveri, essendo ben lungi dal supporre che quella bordaglia di contadini posti in fuga potesse riapparire nella giornata.
Trovammo il villaggio interamente deserto. Tutto ivi annunziava la fretta precipitosa con la quale gli abitanti avevano preso la fuga. La maggior parte delle case, rimaste aperte, ci offrirono risorse d’ogni genere.
Mentre eravamo occupati a riunire de’ viveri per più giorni, sentimmo tirare qualche colpo di fucile e nel medesimo punto tutte le montagne circostanti furono occupate da una moltitudine di gente armata.
Il distaccamento posto all’entrata della gola era stato assalito ed obbligato ad abbandonare la sua posizione, dopo aver avuto parecchi uomini uccisi e feriti.
Nel momento in cui cominciavamo a salire l’erta per accorrere in suo aiuto, esso fu costretto a ritirarsi in tutta fretta nel villaggio. I contadini che lo seguivano molto da vicino si stabilirono in massa dinnanzi a noi, in modo da impedirci assolutamente qualunque uscita da quelle strette in cui eravamo tutti rispinti senza poter sperare di aprirci un passaggio da quella parte. Il distaccamento andò allora verso l’altra uscita, ove fu accolto con una grandine di sassi e di macigni enormi lanciati dall’alto della montagna che schiacciarono innanzi a noi due zappatori ed un tamburrino. Vedendo che non si poteva penetrare in quel passaggio senza correre ad una perdita certa, tornammo indietro con la ferma risoluzione di far di tutto per uscire da quella spaventevole posizione. Più tardavamo e più diventava pericoloso. Le palle piovevano da ogni parte e si sentivano le grida acute delle donne che, simili alle Furie, non aspettavano altro che il momento di spargere il nostro sangue. Subito i tamburri battono la carica e tutti ci precipitiamo verso quella fatale uscita con tutta la rabbia della disperazione. La compagnia de’ volteggiatori attraversa il torrente sotto una pioggia di palle, salisce con la più grande difficoltà una montagna scoscesa, donde il fuoco degl’insorti ci faceva provare perdite considerabili ed infine que’ bravi pervengono ad aprirsi una via che la necessità sola poteva rendere praticabile.
Appena fummo arrivati sulle alture, i soldati furiosi corsero con accanimento dietro gl’insorgenti che fuggivano da ogni banda. Un gruppo assai numeroso loro, ridottosi sopra la punta d’una roccia, fu massacrato, o perì gettandosi nei precipizi. Questo disgraziato scacco, ricevuto per la necessità d’avere de’ viveri de’ quali mancavano completamente, è costato più di sessanta uomini. Un gran numero di noi è stato ferito leggermente ed ha avuto delle contusioni, oltre gli abiti forati dalle palle. Ma la perdita sofferta dagl’insorti in questi due
scontri è stata molto più considerabile ed ha dovuto renderci anche più formidabili a’ loro occhi, provando loro che la intrepidità francese non conosce nessun ostacolo e può cavarsela da tutti i cattivi passi.
Marciammo una parte della notte per ritornare a Mormanno prima che quei contadini, i più coraggiosi che avessimo mai incontrati ancora in Calabria, potessero intercettare la strada.
Vi entrammo prima dell’alba a tamburo battente. La nostra improvvisa apparizione, nel momento in cui s’era fatta correr la voce della nostra completa distruzione, fu un colpo di fulmine per gli abitanti che, temendo i rigorosi provvedimenti che eravamo bastantemente autorizzati a prendere in tutto quel circondario, ebbero l’audacia e l’insolenza di mandare una deputazione per rallegrarsi con noi del nostro felice ritorno.
Questa insurrezione diventava formidabile. Il comandante mandò de’ rapporti esatti e circostanziati per far conoscere lo stato delle cose e per domandare rinforzi a fine d’occupare militarmente i principali villaggi, poiché questo è il solo modo di ridurli alla obbedienza. Intanto volle fare un tentativo contro un borgo chiamato Laino, focolare della sommossa. Questa operazione richiedeva il più gran secreto. Abbisognavano delle guide che si ottennero con uno stratagemma e che servirono per forza, e partimmo in una notte oscura, mantenendo il più gran silenzio. Laino è posto a dodici miglia di distanza da Mormanno.
Arrivandovi prima del giorno, si poteva sperare di sorprendervi una parte degli insorti, o almeno di prendere come ostaggi le famiglie d’alcuni individui che avevano una gran parte in questa rivolta. (continua)