La parabola di Gioacchino Murat (da “Storia in Rete” n. 37-38)
20 luglio
Generale impetuoso e controverso, Gioacchino Murat riuscì per prima cosa a conquistare la sorella minore di Napoleone, Carolina. Formarono una coppia bene assortita (nonostante le reciproche intemperanze e tradimenti…) che non si sciolse nemmeno nella disgrazia finale, fino al giorno in cui quello che era stato cognato dell’Imperatore e re di Napoli, ormai ridotto ad un capobanda, non finì davanti ad un plotone d’esecuzione anglo-borbonico in Calabria…
di Anna Maria Vischi Ghisetti da STORIA IN RETE n. 37-38
La tragica vicenda di Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone, e di suo marito Gioacchino Murat, maresciallo di Francia e re di Napoli, rappresenta in modo esemplare la bizzarra altalena di fortune e di miserie che spesso il destino, come in un romanzo di Balzac, riserva agli uomini: belli, ricchi, potenti e sfrenatamente ambiziosi, precipitarono rovinosamente, dopo una meteorica ascesa; a lui toccò una fine ignobile, a lei un lungo, melanconico declino. Tutto iniziò nel giorno che doveva cambiare il corso della storia non solo in Francia, ma in tutta l’Europa: il 19 brumaio (10 novembre 1799) scoppiò un grande trambusto al collegio femminile di Saint-Germain retto da madame Campan. Le ragazze furono svegliate in piena notte da grida concitate e fragorosi colpi al portone: quattro giganteschi granatieri della guardia a cavallo chiedevano di vedere la «cittadina Bonaparte», che si presentò in camicia da notte. Alla graziosa diciassettenne venne comunicato da parte del generale Gioacchino Murat che suo fratello, Napoleone, era praticamente diventato il padrone della Francia. Il governo del Direttorio, corrotto e irresoluto, era stato spazzato via da un audace colpo di mano e i rappresentanti dell’assemblea dei 500 erano stati costretti a fuggire saltando dalle finestre inseguiti dai soldati di uno scatenato Murat che li incitava gridando: «Foutez moi tout ce monde dehors!». Carolina, lusingata, fu definitivamente conquistata dal gesto ardito e galante del suo pretendente: aveva già conosciuto il brillante ufficiale di cavalleria tre anni prima, al castello di Mombello, vicino a Verona, dove Napoleone, allora comandante in capo dell’armata d’Italia, si era installato con tutta la famiglia dopo la vittoriosa prima campagna nella penisola. Era stato un colpo di fulmine per entrambi e Gioacchino, allora aiutante di campo di Bonaparte, si era ripromesso di non lasciarsi sfuggire la vivace sorella dell’astro nascente, l’eroe di Rivoli e di Arcole.
Ma chi era Gioacchino Murat, questo generale dalla carriera ambigua e discontinua, ex-giacobino, diventato insostituibile braccio destro di Napoleone? Undicesimo figlio di un albergatore, Pierre Murat-Jourdy, era nato il 25 marzo 1767 a Bastide-Fortunière (oggi Bastide-Murat), nel dipartimento del Lot e non in Guascogna, come hanno spesso affermato i biografi. La famiglia, soprattutto la madre, la religiosissima Jeanne Loubières, sognava per il suo ultimo figlio la carriera ecclesiastica che, sperava, ne avrebbe domato la natura sfrenata e selvaggia. Dopo alcuni anni di collegio a Cahors il ragazzo venne inviato nel seminario dei Lazzaristi a Tolosa. Come confesserà più tardi in una lettera ad un suo amico d’infanzia, non sentiva alcuna vocazione per il sacerdozio: «La mia famiglia vedrà che non avevo una grande disposizione per fare il prete». Non sopportava le regole del convento, al contrario gli piacevano le donne, il gioco e il bere. Ben presto, anche perché fortemente indebitato, lasciò la tonaca e si arruolò in cavalleria, nel 6° Reggimento dei cacciatori delle Ardenne. Ma così come si era dimostrato insofferente alle costrizioni del convento, non sopportava neppure la dura disciplina dell’esercito. Sebbene fosse un abilissimo cavallerizzo, audace, ambizioso e con una fiducia illimitata nelle proprie capacità («con il mio coraggio e i miei talenti militari posso andare lontano» scriveva al padre), la sua carriera fu segnata da rapide promozioni e successive destituzioni. Nel 1789 fu privato del suo grado di maresciallo di alloggio ed allontanato dall’esercito, forse per motivi politici: vi rientrò a rivoluzione iniziata, nel 1792, come guardia costituzionale del re e riconquistò rapidamente i gradi, fino a quello di tenente; ma la sua amicizia nei confronti dei capi giacobini più oltranzisti lo rese sospetto dopo la caduta di Robespierre e nel 1794 venne arrestato e chiuso in carcere ad Amiens. Solo l’intervento di alcuni amici fidati lo tirò fuori dalla prigione.
Il momento del riscatto e di quell’accelerazione della carriera che aveva sempre sognato stava per arrivare: nell’ottobre del 1795 scoppiò una rivolta realista a Parigi e lo sconosciuto generale Bonaparte aspettava impaziente i cannoni che gli avrebbero consentito di stroncarla. Fu Gioacchino a portarglieli, la sommossa fu soffocata nel sangue e il Direttorio salvato da colui che allora venne ribattezzato «il generale vendemmiaio». Conquistata così la fiducia del supremo potere esecutivo e del suo massimo esponente, il potentissimo Paul Barras, Napoleone ricevette nel 1796 il comando della spedizione in Italia contro l’Austria, l’acerrima nemica della Francia repubblicana, e Murat colse al volo l’occasione. Con perfetto tempismo e grande spirito di iniziativa, si offrì al generale come aiutante di campo. Da allora la sua ascesa fu inarrestabile, anche se il rapporto personale con Napoleone, all’inizio segnato da una fede e da una sottomissione assolute, divenne sempre più problematico e conflittuale, fino a sfociare nella rivolta e nel tradimento. Compagno dell’onnipotente generale corso negli anni che precedettero la conquista del vertice del potere, combatté eroicamente in Italia e in Egitto, raggiungendo rapidamente i gradi di generale di brigata nel 1796 e di generale di divisione nel 1799, dopo la battaglia di Abukir. Ma nel gennaio del 1800 ottenne il premio più ambito: riuscì a vincere le resistenze di Napoleone, diventato primo console, e a sposarne la sorella più giovane, l’avvenente e capricciosa Carolina. Bonaparte era contrario al matrimonio, che considerava una mesalliance: «Verranno tempi, profetizzava, in cui forse ci saranno dei sovrani a disputarsi la sua mano». Inoltre considerava Murat un immorale e un libertino: «Ha sempre bisogno di donne, ne cambia una al giorno!» Avrebbe preferito per sua sorella un altro tra i suoi fedelissimi, il futuro maresciallo Jean Lannes, o il generale Victor Moreau, suo avversario politico, ma quest’ultimo rifiutò sprezzantemente facendo sapere che avrebbe piuttosto sposato la ravadeuse du coin (una rammendatrice). Alla fine fu costretto a cedere di fronte alla testardaggine dei due giovani, sempre più infatuati l’uno dell’altra.
Gioacchino, secondo la testimonianza di Constant Wairy, il valletto di camera di Napoleone, era «un uomo di statura gigantesca, con begli occhi blu che roteavano nelle orbite, enormi favoriti e lunghi capelli neri che gli ricadevano sul colletto». Proverbiale era la sua eleganza e il gusto per gli abiti stravaganti, generalmente un’uniforme polonaise ricamata vistosamente in oro, con ampi pantaloni color amaranto e un cappello a larghe falde con quattro grandi piume di struzzo alla sommità, in mezzo alle quali svettava una magnifica egretta di airone. La maligna duchessa di Abrantès racconta invece che, tolti i ricami e i vestiti sgargianti, era quasi brutto, con labbra troppo grosse e il colorito scuro. Celebre era l’irridente soprannome di Re Franconi (un cavallerizzo del circo di Parigi), che gli aveva affibbiato il potente cognato. Carolina, il cui vero nome era Maria Annunziata, era nata il 24 marzo 1782 ad Ajaccio: meno bella della sorella Paolina, immortalata come principessa Borghese nel candido marmo del Canova, era una seducente fanciulla piccola e bionda, con uno splendido incarnato («seta bianca cosparsa di rose»), che sapeva mettere in risalto indossando delicati abiti color pastello. Le spalle tonde e le belle braccia erano di un candore abbagliante e le mani e i piedi piccolissimi. In compenso «era di un ignoranza che non avrebbe potuto essere maggiore». Il 20 gennaio 1800 finalmente l’aitante cavaliere e la sua piccola dama convolarono a nozze, con una dote piuttosto modesta e il dono, da parte del primo console, di una collana di perle prelevata dallo scrigno dei gioielli della moglie Giuseppina. La vita che conducevano nella loro prima abitazione, l’hotel de Brienne, era sfarzosa, densa di ricevimenti, balli e feste, perché l’ambiziosa Carolina era perennemente in competizione con l’odiata cognata Giuseppina Beauharnais: considerata in Corsica come la Cenerentola della famiglia, arrivata all’improvviso alla ricchezza dopo che le era mancato tutto, insieme al marito non meno avido, iniziò ad approfittare con frenesia dei beni materiali e del potere; entrambi sembravano voler mordere la vita. I biografi non sono teneri con lei: la considerano un diabolico incrocio tra Machiavelli e Messalina e la fonte principale delle disgrazie di Gioacchino. Dotata come il fratello di una forte volontà unita a una smodata ambizione, costretta ad agire in un tempo in cui le donne avevano più doveri che diritti, usava le sole armi a sua disposizione, la seduzione e l’intrigo.
I primi anni del matrimonio furono comunque segnati da un amore sincero e appassionato tra i due coniugi, che misero al mondo in rapida successione i loro quattro figli, Achille, Letizia, Luciano e Luisa. Gioacchino fu probabilmente miglior padre che buon marito: le sue lettere alla sua beniamina, la secondogenita Letizia, traboccavano di affetto e tenerezza. Dopo la seconda vittoriosa campagna d’Italia, che riconsegnò la Lombardia ai francesi, Murat ebbe il prestigioso incarico di comandante in capo dell’armata francese nella penisola, e si trasferì a Milano con la famiglia. Il periodo milanese fu però contrassegnato dai continui dissidi tra lui e il vicepresidente della neonata Repubblica Italiana, ex-Cisalpina, il nobile monarchico Francesco Melzi d’Eril, con il quale invece Carolina, più diplomatica dell’irruente consorte, seppe stabilire un’ottima intesa: «Madame Murat si è comportata con grande giudizio, saggezza e prudenza», riferiva Melzi a Napoleone, assai infastidito dalle incessanti lamentele del cognato. L’insoddisfazione di Murat dipendeva principalmente dalla sensazione di essere relegato in secondo piano e in realtà, mentre accusava d’Eril di scarsa fedeltà verso la Francia, covava il segreto desiderio di prenderne il posto. A Milano Murat si era scandalosamente arricchito: quando infine nel 1803 tornò in patria e venne nominato governatore di Parigi, acquistò un magnifico palazzo di 35 stanze, l’hotel Thélusson, un castello a Neuilly, e numerosi terreni, per un totale di quasi un milione e mezzo di franchi. Il suo stato maggiore era il più ricco di tutto l’esercito e costava una fortuna ai suoi membri: bisognava possedere almeno tre cavalli e quattro tenute, per l’estate, per l’inverno, una di parata e una di società. Come governatore di Parigi Murat dovette affrontare un’emergenza di inaudita gravità: il fallito complotto per assassinare Napoleone da parte dei generali filomonarchici George Cadoudal e Charles Pichegru, ispirato dal governo inglese, e l’affaire del duca d’Enghien che tanto scandalizzò tutta l’Europa. Luigi Enrico di Borbone, figlio del principe di Condé, fu ritenuto da Bonaparte complice dei cospiratori, rapito in Germania dove si trovava in esilio, imprigionato e fucilato dopo un giudizio sommario. Si dice che Murat e Carolina fossero stati tenacemente contrari all’esecuzione, ma la testimonianza del generale Savary, futuro capo della polizia, smentisce questa versione: «Coulaincourt ha fatto rapire il duca, ma è stato Murat a farlo giudicare e io a fare eseguire la sentenza». Napoleone, già sfuggito nel dicembre del 1800 alla bomba di rue Saint Nicaise, quando una violenta esplosione aveva ucciso numerosi civili mancando per un pelo la sua carrozza mentre si recava all’Opéra, aveva deciso di usare il pugno di ferro contro i monarchici al servizio dei Borboni e al soldo degli inglesi: «Sono dunque un cane che si può ammazzare per la strada! Li farò tremare e gli insegnerò a stare tranquilli!». Come ulteriore dimostrazione di forza, nel maggio dello stesso anno si fece proclamare per senatoconsulto Imperatore dei Francesi; George Cadoudal, prima di salire sul patibolo, aveva commentato con caustica amarezza: «Volevamo dare un re alla Francia, abbiamo fatto molto di più, le abbiamo dato un Imperatore!».
La pace tra la Francia e le potenze europee stava per finire: ma la serie di guerre interminabili che insanguinò il continente per dieci anni non fu, come spesso si crede, il nefasto prodotto della volontà di uno solo, ma la continuazione di uno scontro secolare, con cause economiche e sociali, tra due superpotenze, la Gran Bretagna e la Francia, dove le rispettive borghesie commerciali e industriali lottavano per l’egemonia mondiale. Alla fine fu il nascente impero finanziario mercantile e oceanico inglese a prevalere sull’impero militare amministrativo e continentale francese. Per Murat iniziò un lungo periodo di trionfi, culminato nella nomina a re di Napoli, l’apice della sua carriera: ad Austerlitz, Jena, Eylau, Friedland, come comandante della riserva di cavalleria, guidò grandiose cariche e vittoriosi inseguimenti. Gli altri marescialli, dotati di qualità militari infinitamente più solide, non potevano credere che quel vanitoso coq empanaché (gallo impennacchiato) si accaparrasse tutta la gloria nei bollettini dell’Armée solo perché era il cognato di Napoleone. I suoi contrasti con gli altri capi erano frequenti: ad Ulm lui e Ney, entrambi facili alla collera, per un pelo non vennero alle mani per una differenza di vedute sulla strategia da adottare contro gli austriaci. Di fronte alle argomentazioni e alle carte geografiche dispiegate sul tavolo da Ney, Gioacchino aveva risposto irridente: «Signor maresciallo, non mi interessano i vostri piani. Io sono abituato a fare i miei di fronte al nemico!» Il lorenese era furioso e solo l’intervento del suo segretario privato, il prudente e compassato Charles Cassaing, aveva evitato un duello alla sciabola tra i due. Napoleone d’altra parte era abilissimo a sfruttare le invidie e le gelosie dei suoi luogotenenti, per accrescerne la combattività e lo spirito di emulazione. Come osservò un’acuta memorialista, madame de Rémusat, a proposito dei marescialli: «Il modo in cui l’Imperatore conteneva, soddisfaceva e irritava impunemente uomini così alteri, così fieri della loro gloria, era notevole; con quale abilità seppe servirsene nell’esercito e come trasse da essi nuovi raggi per la sua gloria impadronendosi della loro!». Con il vanagloriso cognato alternava i favori alle critiche brucianti. Però, cedendo anche alle incessanti insistenze di Carolina, lo copriva di onori e di incarichi prestigiosi: maresciallo di Francia, principe e granduca di Berg e di Clèves, grand’ammiraglio… «Con i miei parenti – confessò in esilio l’ex Imperatore – sono sempre stato un poule mouillé» (pulcino bagnato). Mentre il marito e il fratello combattevano nel fango della Polonia, la mente operosa e calcolatrice di Carolina non rimaneva inattiva. Napoleone non aveva eredi, poteva morire improvvisamente durante una delle sue campagne e la successione al trono era aperta. Intrigando con le due eminenze grigie del governo, Fouché e Talleyrand, mirava ad assicurarsi il potere supremo cercando soprattutto di estromettere i detestati Beauharnais; Murat aveva inoltre un grande vantaggio su Eugenio, figlio dell’Imperatrice Giuseppina e viceré d’Italia: aveva carisma e si era creato un vero e proprio partito nell’esercito. Come ulteriore garanzia, Carolina era diventata l’amante del generale Andoche Junot che, come governatore di Parigi, era il più idoneo a gestire una crisi, se l’Imperatore fosse morto in battaglia. Naturalmente la relazione giunse alle orecchie del malcapitato Gioacchino, scoppiò uno scandalo tremendo e Junot venne spedito in Portogallo. Ma poco dopo anche Murat fu inviato nella penisola iberica, dove il 2 e il 3 maggio 1808 dovette reprimere con crudele ferocia la ribellione del popolo di Madrid contrario all’abdicazione dei Borboni e alla nomina di Giuseppe Bonaparte quale re di Spagna. L’apertura del fronte spagnolo si rivelò fatale per l’Impero: inoltre la Spagna fu economicamente ridotta a una colonia e sfruttata a beneficio della Francia, che operava in condizioni di assoluto monopolio nel paese, politica che suscitò una serie di interminabili sommosse da parte di giunte ribelli capeggiate dal clero e dall’aristocrazia e assistite dall’Inghilterra, finché nel 1813 il re Giuseppe fu costretto a fuggire e a restituire il trono ai Borboni.
Gioacchino lasciò dunque la Spagna con la sinistra fama di massacratore, ma nella lotteria dei troni lui e Carolina vinsero il reame di Napoli, lasciato vacante da Giuseppe. La moglie da tempo gli ripeteva: «Lasciami fare, grande bete! Fra poco, grazie a me, sarai re!». Il 25 settembre 1808 fece una trionfale entrata nella città, con l’altisonante titolo di «Joachim-Napoleon par la grace de Dieu et la Constitution de l’Etat, roi des Deux Siciles, grand amiral de l’Empire». Nonostante i continui ammonimenti e i rimbrotti dell’augusto cognato, che pretendeva dagli stati vassalli retti dai suoi «proconsoli» una totale sottomissione agli interessi economici francesi, l’azione di Murat a Napoli fu sostanzialmente positiva: introdusse il codice napoleonico, iniziò grandi opere pubbliche, costruì strade, cercò di modernizzare le città, prosciugò le zone paludose e insalubri, represse il banditismo in Calabria. Ma Napoleone, spregiatore di ogni merito, continuava a soprannominarlo lazzarone e Pantalone italiano.
Quando Murat tentò di aggirare il blocco continentale, cioè il divieto di commercio con l’Inghilterra imposto a tutta l’Europa, una vera mostruosità che stava portando alla rovina l’intero continente, Napoleone lo convocò a Parigi e lo minacciò: «Signor maresciallo, vi farò tagliare la testa!». Il blocco continentale, pilastro della politica napoleonica per annientare l’Inghilterra, iniziato con la firma del trattato di Berlino nel 1806, si stava rivelando rovinoso per le forze produttrici europee e causò una grande crisi economica all’inizio del 1811. Nelle piazze ardevano enormi falò in cui venivano bruciate le merci coloniali importate illegalmente, zucchero, caffè, indaco, cotone, tè, sotto gli occhi di popolazioni sempre più esasperate verso una Francia non più liberatrice ma sfruttatrice e tiranna, che sopravviveva solo grazie ai sussidi ricavati dalle esose contribuzioni estorte ai paesi vassalli. I giornali inglesi scrivevano «Cesare ha perso la testa». In effetti, anche senza Lipsia, anche senza Waterloo, la barbarie del blocco continentale avrebbe portato alla rovina la mastodontica costruzione imperiale: l’invio di crudeli satrapi come il maresciallo Nicolas Davout, che ad Amburgo minacciava di punire i trasgressori delle leggi francesi con cinquanta colpi di bastone, non contribuiva a pacificare gli animi. Quando lo Zar Alessandro infranse il blocco, permettendo alle navi inglesi di raggiungere i suoi porti, fu la guerra e Napoleone invase la Russia. Anche il re di Napoli vi partecipò, alla testa di un’unità di cavalleria che all’inizio contava 50 mila uomini e che alla fine si ridusse a non più di 1.200. Memorabili furono i suoi litigi con Davout, che gli rimproverava di ingaggiare la cavalleria senza riconoscere il terreno e di far massacrare uomini e cavalli inutilmente. Murat gli aveva risposto per le rime: «Quando si portano gli occhiali, signor maresciallo (Davout era molto miope), non si fanno più campagne militari».
Pieno di ardore quando c’era da sferrare il coup de sabre decisivo, era però incostante e privo di spirito di sacrificio durante le lunghe marce strategiche. In Russia Murat perse definitivamente la sua fede, già vacillante, in Napoleone, che lo aveva nominato comandante in capo dell’armata durante la ritirata, quando nel dicembre 1812 era stato costretto a rientrare frettolosamente a Parigi in seguito al tentativo di colpo di Stato del generale Malet. Davanti ai marescialli allibiti, Gioacchino dichiarò che l’Imperatore era ormai un fou, un insensé al quale nessun governante in Europa poteva più credere. Il capo di Stato Maggiore Alexandre Berthier così scrisse, allarmato, al ministro della Guerra: «Il re di Napoli è il primo uomo sul campo di battaglia, ma il più incapace come comandante in capo; bisogna sostituirlo subito con il viceré (Eugenio Beauharnais) che è pieno di salute e di forza e ha la totale fiducia da parte del duca di Elchingen (Ney) e del maresciallo Gouvion Saint Cyr». Carolina da Napoli lo scongiurava di restare al suo posto: «Mon ami, calmati, non perdere il frutto di una campagna così pericolosa e brillante. Capisco le tue sofferenze, ma ti scongiuro, abbi ancora un po’ di pazienza!» L’Imperatore tempestava: «Vostro marito non ha coraggio morale, un capitano dei volteggiatori avrebbe comandato meglio di lui». Murat intanto si dichiarava malato e alle quattro del mattino del 17 gennaio 1813 lasciava il quartiere generale dell’armata a Vilna e si dirigeva verso Napoli sbraitando: «Non mi farò prendere in questo pot de chambre!». Tornato nel suo regno, iniziò una frenetica politica del doppio gioco, sostenuto dalla regina, per conservare ad ogni costo il trono negli anni di agonia dell’Impero. Già sul punto di firmare un accordo con gli austriaci, combatté nella campagna di Germania, ma dopo la sconfitta di Lipsia nell’ottobre del 1813, lasciò l’esercito e l’Imperatore, che non doveva più rivedere. Nel gennaio dell’anno successivo firmò un trattato segreto con Austria e Gran Bretagna e intervenne con i suoi 30 mila uomini a fianco delle potenze alleate marciando contro l’esercito franco-italiano di Eugenio e affrontandolo sul Taro, presso Reggio. Napoleone giudicò la sua condotta infame e lo bollò con l’appellativo di traitre extraordinaire. In realtà Murat aveva le mani legate: aveva agito con l’unico scopo di evitare l’invasione del suo regno e la restaurazione dei Borboni.
Ma dopo la prima abdicazione di Napoleone, nell’aprile del 1814, lo aspettava un’amara sorpresa: gli alleati e soprattutto l’Inghilterra si rifiutarono di riconoscerlo e preparavano un ritorno di re Ferdinando, esiliato dal 1806 in Sicilia. A questo punto l’unica carta che gli restava da giocare era quella, azzardata ma nobile, dell’unità italiana: «Un re che non sa conservare la sua corona – sosteneva – deve almeno morire da soldato». Incoraggiato dall’incredibile sbarco a Cannes di un redivivo Bonaparte, che in pochi giorni riconquistò la Francia, con un ulteriore rovesciamento di alleanze, nel marzo del 1815, alla testa di circa 36 mila napoletani, si mosse verso il nord Italia per affrontare gli austriaci, con il sogno di conquistare la penisola e dichiararne l’indipendenza, come aveva enunciato nel proclama indirizzato agli italiani e firmato a Rimini il 30 marzo. Il suo esercito, dopo alcuni parziali successi, venne però sconfitto a Tolentino il 2 e il 3 maggio, battaglia che alcuni storici considerano la prima del Risorgimento italiano. Il 20 maggio, in seguito al trattato di Casalanza, il re Ferdinando IV di Borbone veniva richiamato a Napoli, Carolina si consegnava agli inglesi e Murat era costretto a rifugiarsi in Provenza. Napoleone rifiutò di impiegare il traitre extraordinaire a Waterloo e dopo la catastrofe in Belgio, Gioacchino, braccato, fuggì in Corsica. Da quest’isola partì per la sua ultima tragica, fatale avventura.
Qui comincia il mistero: possibile che abbia veramente creduto di potere riconquistare Napoli sbarcando in Calabria con trenta disperati còrsi? Appare molto più plausibile la tesi secondo la quale sia caduto in una trappola abilmente ordita da agenti segreti borbonici e inglesi. Dichiarato ormai hors la loi (fuorilegge) era stato avvicinato a Bastia da un suo ex-aiutante di campo, l’ambiguo colonnello inglese Francis Macirone, che gli aveva consegnato i passaporti, preparati dal principe Metternich, per raggiungere in esilio Carolina a Trieste, dove si era rifugiata sotto il falso nome di contessa di Lipona (anagramma di Napoli). Contemporaneamente venne avvicinato da due agenti borbonici, inviati dal ministro di re Ferdinado IV, Luigi de Medici, che aveva giurato la sua rovina, e da questi attirato in Calabria facendogli credere che i napoletani erano scontenti e pronti a sollevarsi a suo favore. Esaltato da questa falsa informazione e arruolati circa 250 uomini e cinque battelli, Gioacchino tentò la sorte; l’8 ottobre 1815 sbarcò a Pizzo Calabro: le sue schiere si erano molto assottigliate perché un’improvvisa burrasca aveva disperso quattro delle sue navi, che erano scomparse. Sembra che a questo punto Murat avesse considerato fallito il suo tentativo e volesse proseguire per Trieste per raggiungere sano e salvo la famiglia. Ma per un malinteso, o forse per il tradimento del comandante della sua nave, il maltese Barbara, fu costretto a sbarcare con un pugno di uomini: a Pizzo era domenica, giorno di mercato, la piazza era gremita; in poco tempo si svuotò, mentre Gioacchino invano tentava di farsi riconoscere. All’improvviso arrivò un drappello di gendarmi che iniziò a sparare sul gruppo, uccidendo tre uomini. Murat tentò di fuggire verso la spiaggia, ma venne inseguito, arrestato e portato, coi vestiti a brandelli e coperto di graffi, nella tetra cella detta «del coccodrillo» presso il castello di Pizzo. Il suo funereo destino era segnato. Alla corte di Napoli ci si congratulava per il successo dell’operazione, l’unico dubbio riguardava l’esito del processo: si temeva, con una condanna a morte, di offendere l’Austria, poiché Gioacchino era cognato dell’Imperatrice Maria Luisa, e per i legami che univano Carolina a Metternich, suo ex-amante. Ma l’ambasciatore inglese, William A’Court, esclamò implacabile: «Ammazzatelo, me ne assumo la totale responsabilità». Fu istituita una commissione militare, giudicata illegale dall’ex-sovrano, che rifiutò sia l’avvocato, il capitano Starace, sia di comparire di fronte al tribunale. L’ordine era di «emettere la sentenza e di procedere all’esecuzione del generale Murat con un quarto d’ora per i conforti religiosi». Nel tardo pomeriggio del 13 ottobre venne fucilato. Le sue ultime parole furono: «Soldati, mirate al cuore, ma risparmiate il viso!». La sua ultima vanità, ma non venne ascoltato, poiché fu necessario finirlo con due colpi di grazia alla testa. Con il consueto glaciale cinismo Napoleone commentò da Sant’Elena: «Ha avuto quello che si meritava, è morto come un vulgaire chef de bande… Con me era il mio braccio destro, lasciato a se stesso era un imbécile senza giudizio… I calabresi, fucilandolo, si sono mostrati più pietosi di chi mi ha imprigionato qui». Carolina Murat si ritrovava così vedova a soli trentasette anni, esiliata, con quattro figli, e scarse risorse economiche. Da Trieste fu trasferita a Praga e quindi in Austria: era molto ingrassata, l’eterno sorriso si era trasformato in una smorfia sprezzante «che non le donava affatto», ma aveva trovato un nuovo spasimante, il generale Francesco Macdonald, suo ex ministro della guerra, con il quale forse si sposò segretamente. Nel 1830 e nel 1838 fece due brevi soggiorni a Parigi, dove il governo le aveva finalmente concesso un vitalizio annuale di centomila franchi. Non ne usufruì mai, poiché morì il 18 maggio 1839 a Firenze, dove fu sepolta, nella chiesa di Ognissanti. Il corpo dello sfortunato re giacobino era stato invece gettato in una fossa comune e sebbene non sia mai stato identificato, si suppone riposi sotto la lapide posta nella navata centrale della chiesa di San Giorgio a Pizzo, con la semplice iscrizione: «Qui è sepolto Re Gioacchino Murat». Il grande poeta George Byron aveva così commentato, commosso, la scomparsa di un tale magnifico cavaliere: «Povero, caro Murat, che brutta fine! Sono certo che le sue piume bianche fossero un punto di riferimento in battaglia, come quelle di Enrico IV».
Anna Maria Vischi Ghisetti