TESTO SENZA IMMAGINI FORMATO LIBERO di Francesco DI RAUSO
La bellissima medaglia presentata in questo articolo ricorda un episodio triste per il periodo napoleonico ma nello stesso tempo importantissimo. La medaglia fu distribuita con apposita cerimonia dal generale Nunziante il 17 Giugno del 1816 ad alcuni cittadini di Pizzo Calabro che ebbero un ruolo decisivo nella cattura di Gioacchino Murat, durante lo sbarco che quest’ultimo fece per riconquistare il Regno delle Due Sicilie. Nell’opera di Tommaso Siciliano vi sono studi e ricerche in merito alla coniazione di diversi esemplari in oro, questi ultimi donati dal re Ferdinando IV al comune di Pizzo come ringraziamento per la fedeltà dimostrata verso la dinastia borbonica. Tali medaglie rimasero custodite presso la casa comunale fino al 1863, anno in cui vennero rifuse per ordine di un ministro piemontese che successivamente provvide a far inviare l’importo del valore intrinseco in lire alla cittadina calabrese (ogni medaglia d’oro aveva un valore intrinseco di settanta ducati napoletani). Quasi tutti i suddetti pezzi furono quindi rifusi ad eccezione però di due esemplari (forse tre), di cui uno oggi presente nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Per quel che riguarda i pochissimi esemplari in argento, invece, devono essere considerati di gran rarità. Anche se i documenti ufficiali parlano di sessanta medaglie coniate, sicuramente quelli esistenti oggi sul mercato o nelle raccolte private sono complessivamente assai meno. Il grande esperto e collezionista Eduardo Ricciardi, infatti, aveva nella sua collezione personale solo l’esemplare in bronzo (ricordiamo ai lettori che quest’ultimo volle donare ai Napoletani la sua collezione e oggi, grazie a questo nobile gesto, possiamo ammirare nel Museo di San Martino di Napoli la sua prestigiosa raccolta). Dai documenti ufficiali non risulta la coniazione di esemplari in bronzo, ma è evidente che ne furono coniati e, anche se la reperibilità sul mercato di questi ultimi è oggi mollo difficile, è altresì possibile che essi siano meno rari di quelli in argento. Come appena sopraccennato, l’apparizione sul mercato delle medaglie in argento è invece rarissima (specialmente negli ultimi anni). Personalmente conosco infatti oltre all’esemplare della collezione ven- duta nell’asta Christie’s nel 1992, solamente un altro pezzo, venduto nell’asta del Titano di Zurigo nel 1996 stimato 20.000 franchi svizzeri. L’esemplare in argento qui illustrato è in splendido stato di conservazione e presenta nei campi impercettibili e numerose mancanze di metallo che sembrano tanti puntini neri (tipico difetto delle medaglie borboniche di grande modulo causato dal colpo secco del pesantissimo conio sul tondello metallico). E’ una medaglia ricercata anche da collezionisti francesi in quanto commemora in modo indiretto un momento storico di grande importanza per la Francia segnando la fine di un sovrano napoleonide in Italia, un sovrano che diede la vita per i Napoletani e che amò questi ultimi più dei Francesi stessi. Il Murat, infatti, non si comportò come uno spietato conquistatore, al contrario, era liberale e innovativo e fece tutto il possibile per far progredire le Due Sicilie con riforme in grado di favorire il commercio e l’industria. Fece sì che il suo nuovo regno fosse uno stato indipendente e non lo considerò come vassallo dell’impero francese. E evidente che tutto ciò portò una generale miglioria nel nostro “bel paese” ma i sudditi di re Gioacchino Io ripagarono con l’ingratitudine, e l’ironia della sorte volle che fosse giudicato da una legge che lui stesso aveva fatto inserire qualche anno prima nel codice penale. Questa legge consisteva nell’accusare di tradimento e condannare a morte chiunque avesse intenzione di sollevare, con atti rivoluzionari, il popolo verso il sovrano. Quando lo sfortunato sovrano ascoltò la propria sentenza non si meravigliò, anzi, accettò indignato la condanna con freddezza e senza dire una parola in sua difesa. HISTORIA Nella notte, che fu del 28 settembre, la piccola armata salpò di Ajaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, animosa la schiera, allegro il re: fallaci apparenze. Per sei dì, l’armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l’uno dei quali teneva Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocché quelle armi non assai potenti al successo, né così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel Regno discordie civili, tirannide e lutto. L’animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi disperato ed audace, stabilì di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno. Era l’8 ottobre, dì festivo, e le milizie urbane stavano schierale ad esercizio nella piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: Viva il re Murat. Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità dell’impresa. Murat, viste le fredde accoglienze, accederò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch’egli sperava amica, non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell’infantado, devoti ai Borboni, questi per genio, e quegli per antichi ed atroci servigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta e, non con l’armi, coi saluti risponde. Crebbe per l’impunità l’animo ai vili : tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere, ma Gioacchino lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce. Ingrossando le nemiche torme, ingombrato d’esse il terreno, chiusa la strada, non offre scampo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca valeggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbara (era il nome del condottiero); ma quegli l’ode e più fugge per far guadagno delle ricche sue spoglie: ladro ed ingrato. Gioacchino, regnando lo aveva tratto dall’infamia di corsaro, e benché Maltese, ammesso nella sua marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia, ma forza d’uomo non basta, e mentre si affatica, sopraggiunge Trentacapilli coi suoi molti; lo accerchiano, lo trattengono, gli strappano i gioielli che portava al cappello e sul petto, lo feriscono in viso; e con atti ed ingiurie in mille modi l’offendono; fu quello il momento dell’infima sua fortuna, perché gli oltraggi di villana plebaglia sono più duri che morte. Così sfregiato lo menarono in carcere nel piccolo castello, insieme ai compagni, che avean presi e maltrattati. Prima la fama e poi lettere annunziarono alle autorità della provincia quei fatti, né furono creduti. Comandava nelle Calabrie il generale Nunziante, che spedì a Pizzo il capitano Stratti con alquanti soldati. Per telegrafo e corriere seppe il governo i casi del Pizzo: spavento del corso pericolo, allegrezza dei successi, ancora sospetti e dubbiezze, odio antico, vendetta, proponimento atroce, furono i sensi del ministero e del re. Fu eletto difensore il capitano Starace, che si presentò all’infelice per annunziar, il doloroso ufficio presso quei giudici. Ed egli: Non sono miei giudici, disse, ma soggetti; i privati non giudicano i re, ne’ altro re può giudicarli perché non vi Ita impero su gli eguali: il re non ha o altri giudici che Iddio ed i popoli. Il tribunale militare riunito in tutta fretta sentenziò la condanna a morte di Gioacchino, e la sentenza venne udita dal prigioniero con freddezza e disdegno. Menato in un piccolo recinto del castello, trovò schierato in due file uno squadrone di soldati; e non volendo bendar gli occhi, veduto serenamente l’apparecchio dell’armi, postosi in atto di incontrare i colpi, disse ai soldati: Salvate il viso, mirate al cuore. Dopo le quali voci le armi si scaricarono, ed il già re delle Due Sicilie cadde estinto, tenendo stretti i ritratti della famiglia, che insieme alle misere spoglie furono sepolti in quel tempio istesso che la sua pietà aveva eretto. Questo fine ebbe Gioacchino nel quarantesim’ottavo anno di vita, settimo del regno. Era nato in Cahors di genitori poveri e modesti; nel primo anno della rivoluzione di Francia, giovinetto appena fu soldato ed amante di libertà, ed in breve tempo uffiziale e colonnello valoroso ed infaticabile in guerra, lo notò Bonaparte e lo pose al suo fianco; fu generale, maresciallo, gran duca di Berg; e re di Napoli. Mille trofei raccolse in Italia, Alemagna, Russia ed Egitto; era pietoso ai vinti, liberale ai prigioni, e lo chiamavano l’Achille della Francia, perché prode e invulnerabile al pari dell’antico. Ambizioso, indomabile, trattava colle arti della guerra la politica dello Stato. Grande nell’avversità, tollerandone il peso; non grande nelle fortune, perché intemperato ed audace. Desideri da re, mente da soldato, cuore di amico. Decorosa persona, grato aspetto, mondizie troppe, e più nei campi che nella reggia. Perciò vita varia, per virtù e fortuna, morte misera, animosa compianta. (Pietro Colletta).