Le ribellioni alle disposizioni viennesi del 1815 non si esaurirono con l’ondata del 1820-1821: nel 1825 la Russia era stata teatro del moto decabrista; mentre alla fine del decennio (1829) venne formalizzata l’indipendenza della Grecia. Ma fu soprattutto ciò che accadde nel 1830 a determinare un nuovo ciclo di insurrezioni in Italia.
A Parigi, nel luglio del 1830, Carlo X di Borbone, fratello di Luigi XVI, il re ghigliottinato nel 1793, fu costretto all’abdicazione da una sollevazione della capitale francese (le “Trois Glorieuses”) che riuscì a portare sul trono Luigi Filippo d’Orleans, principe d’alto lignaggio che si era caratterizzato per le sue simpatie liberali. Il “re dei Francesi” (e – non più – di Francia) riconobbe il tricolore rivoluzionario come bandiera del Regno, governò rispettando una Costituzione concordata con il Parlamento e abbandonò la tentazione dell’assolutismo. In breve, divenne un punto di riferimento per i liberali di tutta l’Europa.
Poco più tardi, un altro paese, dopo la Grecia, otteneva l’indipendenza: il Belgio, che nasceva dall’atto di separazione dai Paesi Bassi, garantito dalle potenze europee.
Il riverbero di queste trasformazioni si percepì anche in Italia, infiammando nuovamente le speranze dei carbonari e dei patrioti. Si confidava nel fatto che un re come Luigi Filippo non sarebbe rimasto insensibile alla richiesta d’aiuto dei liberali italiani. E che, contestualmente, la Francia avrebbe accettato di portare, in armi, la rivoluzione in Italia, come già accaduto ai tempi della Grande Armée napoleonica.
Ma i patrioti non si affidavano soltanto all’aiuto straniero. La società segreta modenese, ad esempio, aveva trovato un interlocutore privilegiato in Francesco IV di Asburgo-Este, duca di Modena. Ancora oggi ampie restano le zone d’ombra nella ricostruzione dei rapporti tra il duca e Ciro Menotti, esponente della Carboneria ducale. Quello che è noto, tuttavia, è che in un primo tempo, Francesco IV si era persuaso di poter utilizzare a proprio vantaggio l’ardore patriottico dei carbonari, salvo poi ritrattare alla vigilia dei moti insurrezionali.
La rivolta non era però stata esclusivamente progettata per il Ducato modenese, anzi aveva preso spunto, in particolare, dalla situazione tutt’altro che stabile in cui versava lo Stato pontificio. I territori emiliani e romagnoli sottoposti al potere temporale del papa, infatti, ospitavano una fitta rete di società segrete pronte a sovvertire l’ordine costituito e a innescare un moto liberale.
Davanti ai tentennamenti di Francesco IV, Menotti e i suoi sodali anticiparono i tempi e, già nel febbraio 1831, gli insorti presero il potere in importanti città, tra cui Modena, Parma, Bologna, Imola, Ferrara, Ravenna, Cesena, Rimini. Il duca di Modena scappò a Mantova, sotto la protezione degli austriaci, portando con sé Menotti, che nel frattempo aveva fatto arrestare. Il moto, intanto, si estendeva dalla Romagna alle Marche e all’Umbria.
Il tentativo fu tuttavia effimero e non ricevette l’appoggio della popolazione. Fondamentale, inoltre, fu il mancato intervento di Luigi Filippo e della Francia. Già in marzo, l’esercito austriaco, in nome della Santa Alleanza, stroncava le ambizioni dei ribelli.
Ciro Menotti fu giustiziato nella cittadella di Modena per ordine di Francesco IV. Come lui, altri furono gli insorti che persero la vita. Tra loro, Napoleone Luigi Bonaparte, che era stato per breve tempo re d’Olanda e che morì, da carbonaro, a Forlì.
Anche la seconda ondata di moti era fallita. Due eventi di quel 1831 erano però destinati a incidere sulle sorti d’Italia: Carlo Alberto di Savoia-Carignano diventava, alla morte di Carlo Felice, re di Sardegna; Giuseppe Mazzini riparava in Francia, a Marsiglia, dove avrebbe iniziato la sua riflessione critica sull’esperienza della Carboneria.