I carbonari: il coraggio e le sconfitte
I grandi d’Europa, riuniti a Vienna, sotto la “supervisione” dell’austriaco principe di Metternich, avevano disposto il nuovo assetto continentale.
La Francia, nazione sul banco degli imputati, non aveva tuttavia subito decurtazioni territoriali. Ma nell’Europa continentale le differenze rispetto a quanto esisteva prima della rivoluzionedell’Ottantanove erano notevoli. L’Italia, da questo punto di vista, non faceva eccezione.
Al fine del mantenimento dell’ordine e con l’esplicito mandato di esercitare, laddove necessario, operazioni di polizia internazionale, venne creata a Vienna da parte dei vincitori la Santa Alleanza che, tra i grandi Stati europei, vedeva escluso solo il Regno Unito. Nulla, infatti, doveva mutare gli equilibri sanciti dal congresso. Il passato andava dimenticato. Gli ideali della Rivoluzione andavano rimossi. I nuovi codici, cancellati.
Ma non andò così. Già nel 1820 divampò nuovamente la fiamma della rivoluzione. I moti ebbero la loro origine in Spagna, a Cadice. Ben presto, si diffusero anche in Italia. Le prime a insorgere furono Napoli e Palermo. Nel 1821 fu la volta del Piemonte.
Se a Cadice l’oggetto dell’insubordinazione era stata la concessione di una Costituzione, in Italia la protesta andava assumendo una connotazione propria. Accanto alle rivendicazioni liberali si faceva strada, con forza, una richiesta molto precisa, anche se dai contorni ancora sfumati e utopici, illusori: realizzare l’Unità d’Italia. Questa idea, questa speranza doveva infatti scontrarsi con una realtà avversa, ben più organizzata di quanto sperassero gli insorti.
Al centro di questi moti di ribellione, si vennero a trovare le società segrete riunite nella Carboneria, il cui nome simbolicamente trovava origine dai carbonai, i venditori di carbone (allo stesso modo con cui già i massoni si erano ispirati ai simboli dei muratori).
L’intero organigramma restava sconosciuto agli adepti dell’organizzazione, allo scopo di poter impedire un’eventuale infiltrazione delle temute forze di polizia. Proprio l’organizzazione così macchinosa e poco trasparente fu una delle principali cause del fallimento dei moti carbonari. La prima ondata, quella del 1820-1821 fu infatti spazzata via, nel volgere di pochi mesi, dall’intervento diretto delle truppe austriache, in nome della Santa Alleanza.
Nel Meridione tra i protagonisti principali del moto rivoluzionario vi furono gli ufficiali Michele Morelli e Giuseppe Silvati (accanto a loro l’ex murattiano Guglielmo Pepe, destinato a recitare ancora un ruolo di primo piano nel Risorgimento), entrambi arrestati dopo il fallimento del tentativo costituzionale (sconfitta di Antrodoco) e giustiziati nel 1822.
A guidare l’insurrezione piemontese fu, invece, il conte Santorre Di Santarosa che, confidando anche nell’appoggio del giovane principe di Carignano, Carlo Alberto di Savoia, voleva convincere la casa reale a concedere la Costituzione e dichiarare guerra all’Austria. Vittorio Emanuele I non accettò l’una, né intraprese l’altra. Abdicò in favore del fratello Carlo Felice, momentaneamente assente. La reggenza temporanea passò a Carlo Alberto, che concesse la Costituzione. Ma quando Carlo Felice rientrò a Torino, disconobbe l’operato del reggente, il quale, a quel punto, “scaricò” gli insorti, e defezionò. I ribelli, senza appoggi e senza speranza contro le truppe austriache chiamate dal re, si dispersero. Santarosa sarebbe morto qualche anno dopo (1825) in Grecia, dove era andato a combattere per la libertà ellenica.
Molti membri della Carboneria lombarda, come Silvio Pellico e Piero Maroncelli, invece, non ebbero nemmeno l’opportunità di insorgere: la polizia austriaca, dopo averli arrestati, li condusse nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Traccia di queste drammatiche esperienze di reclusione si ritrovano nella più celebre opera di Silvio Pellico: Le mie prigioni.