MURAT, Napoleone Luciano Carlo (Luciano). – Nacque a Milano il 16 maggio 1803, secondogenito di Gioacchino Murat, nel 1808 nominato da Napoleone re delle Due Sicilie, e di Carolina Bonaparte, sorella dell’imperatore.
Trascorse i primi anni di vita a Napoli, dove rimase fino al 1815, quando Gioacchino fu fucilato a Pizzo Calabro dopo un non riuscito tentativo di riconquistare il Regno, nel quale erano rientrati i Borboni. Seguì la madre prima a Trieste, poi nei dintorni di Vienna, nel castello di Frohs-dorf, dove tra il 1815 e il 1822 ricevette una solida educazione. Partì nel 1824 per gli Stati Uniti per raggiungere il fratello maggiore Achille e lo zio Giuseppe Bonaparte. Vi giunse dopo il naufragio della nave su cui viaggiava e un periodo di prigionia in Spagna, da cui fu liberato grazie all’intervento del presidente degli Stati Uniti, James Monroe. Nel 1831 sposò Carolina Georgina Frazer, figlia di un ricco maggiore inglese naturalizzato americano e di una discendente di una illustre famiglia del Sud.
A causa di speculazioni sbagliate e della passione per il gioco, si ridusse in una situazione economica precaria, avendo per sola risorsa le entrate del collegio femminile diretto dalla moglie. Nel tentativo di presentarsi come erede della tradizione familiare, nel 1833 si scontrò inutilmente con il re dei Francesi Luigi Filippo I, che gli impediva il rientro in Francia. Si recò a Firenze, dove risiedevano le sorelle, e poi comunque in Francia, una prima volta nel 1839 e poi nel 1844; vi si stabilì nel 1848, dopo essere stato eletto deputato dell’Assemblea costituente per il dipartimento di Lot. Risultò il primo eletto, benché non fosse molto conosciuto: il ricordo del padre e la morte, qualche mese prima, di Achille, ne facevano un personaggio simbolico e il rappresentate della famiglia.
Non ebbe però capacità di azione: le sorelle Letizia Giuseppina (1802 – 1859), sposata col conte Taddeo Pepoli di Bologna, e Luisa Giulia Carolina (1805-1889), sposata col conte Giulio Rasponi di Ravenna, furono personaggi più incisivi di lui. Nei suoi Souvenirs, Luisa ne notava l’inerzia, la superficialità e la scarsa cultura. Entrambe, attive ed energiche protagoniste dell’ambiente moderato liberale emiliano, in rapporto con Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti, ottennero appoggi alla candidatura di Murat per riavere la corona del Regno di Napoli. Luisa in particolare, apprezzata in famiglia per la sua intelligenza, vicina alla madre e sua intima confidente, negli ambienti ecclesiastici bolognesi era considerata «la donna più rivoluzionaria che esiste nelle Romagne» (Mellano, 1977, p. 265). Avversa al Papato, sospettata dalla polizia come politicamente pericolosa, fu attenta a non esporsi, anche se spesso sul punto di essere arrestata e allontanata dallo Stato pontificio. Minghetti la definì «donna d’alti spiriti» (1890, p. 153) e a lei si rivolse Niccolò Tommaseo nel 1849 perché si attivasse per un intervento francese a Venezia. Nel novembre 1860 si espresse a favore di un’Italia unita «toute entière sous un seul drapeau: Une, forte et puissante» (Souvenirs, 1929, p. 5).
Deputato, membro del Comité pour les Affaires Etrangéres, Murat votò nel 1849 contro la Repubblica romana. Colonnello della Guardia nazionale per la Banlieu di Parigi nel marzo 1849; ministro plenipotenziario della Repubblica francese a Torino dal 3 ottobre per un anno, agì da diplomatico improvvisato; cavaliere e ufficiale della Legion d’honneur nel dicembre 1850, in seguito ai colpi di Stato del cugino Luigi Napoleone, del 2 dicembre 1851 e del 2 dicembre 1852, divenne senatore ed ebbe la conferma del titolo di principe nel 1853, nonché cariche e onori, donativi e un congruo appannaggio. I percorsi caratterizzanti del suo impegno politico furono il murattismo e l’adesione alla franco-massoneria.
Il primo fu un movimento successivo alla rivoluzione del 1848 e all’esilio di molti liberali e democratici dal Regno delle Due Sicilie, che videro in Murat un potenziale re di Napoli capace di riproporre il rinnovamento amministrativo e sociale del decennio francese a Napoli (1806-15), e complottarono perché si mettesse a capo di una rivoluzione. Il movimento non ebbe gran peso tra il popolo del Regno e all’inizio degli anni Cinquanta le varie occasioni cospirative, dalla diplomazia europea definite ‘macchinazioni murattiste’, furono viste con indifferenza; tuttavia il governo borbonico enfatizzò il pericolo del fenomeno, il cui successo era legato sia alla persistenza di un modello amministrativo sia a una valenza sentimentale. Uomo «né di pensiero né di azione» (Bartoccini, 1959, p. IX), Murat sfruttò l’incertezza della politica internazionale, particolarmente mutevole negli anni Cinquanta a causa della guerra in Oriente e della politica francese di espansione e accrescimento della sua influenza in Italia; il difficile equilibrio europeo sembrava legittimare un’origine meridionale di movimenti insurrezionali che tendessero alla risoluzione del problema nazionale e il murattismo divenne centro dell’interesse di uomini di diverso schieramento politico, antiborbonici repubblicani o monarchici costituzionali, tutti convinti della necessità di allontanare i Borboni dal trono di Napoli.
Perciò tra i numerosi aderenti della prima ora furono democratici e radicali, in crisi rispetto allo schieramento mazziniano, da Aurelio Saliceti al liberal-moderato Luigi Dragonetti, al socialisteggiante Giuseppe Bonfigli. Tuttavia le trattative con Casimiro De Lieto, Giovanni Andrea Romeo, Francesco Stocco, pronti a organizzare tentativi rivoluzionari a favore di Murat sulla base di un programma che comprendesse una costituzione molto avanzata e leggi liberali, o non andarono in porto o furono minate dalla mancanza di una precisa strategia e dalla scarsa propensione democratica del principe. Tra sostenitori e simpatizzanti, furono coinvolti personaggi come Giuseppe Pisanelli, Nicola Mignogna, Demetrio Salazar; Dragonetti, Giuseppe Montanelli, Giuseppe Sirtori, Aurelio Bianchi Giovini, respinsero invece ogni accusa di murattismo e nel settembre 1855 Giuseppe Garibaldi rifiutò ogni possibile intesa col movimento; su Il Diritto di Torino (25 settembre 1855) comparve un manifesto degli uomini politici napoletani contrari al ritorno di un esponente della dinastia dei Murat.
Il più convinto fautore di Murat fu il giureconsulto teramano Saliceti, esiliato a Roma nel 1849. Spostatosi a Londra, era stato chiamato a Parigi da Murat, e dal 1852 fu incaricato anche dell’educazione dei figli. Se momento di inizio ufficiale del movimento, che ebbe dal 1854 al 1857 la fase più dinamica, si considera la lettera pubblica inviata nel 1854 da Murat al nipote Gioacchino Pepoli, fu però Saliceti a presentare ufficialmente con un opuscolo la candidatura del principe alla fine di agosto 1855.
In una fase d’intesa tra Francia e Inghilterra, alle quali si avvicinò il Piemonte in funzione antiaustriaca, il murattismo, in quanto sostenitore di garanzie costituzionali, fu accolto da molti come male minore rispetto all’autoritarismo borbonico. Lo stesso Murat si muoveva più per ambizioni personali che per condivisione della politica del cugino neoimperatore (Napoleone III dal 1852); usò anzi il fervore polemico, nella libellistica e nella stampa, sia per vantare presso l’imperatore il presunto accrescimento del consenso, sia per sbandierare presso i suoi fautori l’appoggio del cugino. Tuttavia col profilarsi della prospettiva filopiemontese e unitaria di Daniele Manin, i primi sostenitori lo abbandonarono.
Giudizi negativi circolavano nel mondo politico europeo sul principe Murat, considerato uomo mediocre, furbo più che intelligente, ubriacone e giocatore d’azzardo: l’imperatore non aveva fiducia in lui, la cugina Matilde ne notava «l’attitude d’un insensé», la grassezza, la scarsa intelligenza, il vizio del gioco (Bartoccini, 1959, pp. 4 s.). Minghetti lo definì «uomo bonario, d’intelligenza grossa come il suo corpo» (1890, pp. 158, 162, 166); Giuseppe Mazzini lo giudicò nel 1854 «eunuco di genio e d’audacia» (Epistolario, LII, ep. XXIX, p. 239) ed espresse sprezzanti giudizi ancora nel 1855 (Italia e Popolo, 6 luglio 1855; Epistolario, LV, Politica, XIX, pp. 81-88; Lisi, 2011, p. 52). Tuttavia l’ipotesi murattiana tra il 1855 e il 1856 sembrò avere una certa credibilità e generò una serie di interventi che coinvolsero la legittimità della dinastia, nei confronti sia dei Borboni sia della soluzione unitaria. L’opuscolo anonimo del settembre 1855, La quistione italiana. Murat ed i Borboni, diviso in due parti, La quistione italiana e Il governo murattiano ed il borbonico, almeno nella seconda parte attribuibile a Saliceti (Bartoccini, 1959, p. 93), a favore di Murat in quanto napoletano e italiano, ebbe vasta eco nella stampa e suscitò varie risposte: intervenne lo stesso interessato contro il movimento unitario-monarchico di Manin e contro alcune osservazioni denigranti del Times di Londra (24 settembre 1855).
Le critiche, che coinvolsero anche il padre Gioacchino, furono mosse, tra gli altri, da Italia e Popolo, da Carlo Pisacane e dal filopiemontese Francesco De Sanctis, che riprendeva sue riflessioni in merito alla scarsa coerenza politica di Murat, alla sua estraneità rispetto al discorso nazionale italiano, e con l’articolo L’Italia e Murat (Il Diritto, 5 ottobre 1855) individuava ora il vero nemico del pretendente nel re sabaudo Vittorio Emanuele II più che in Ferdinando II di Borbone. La polemica continuò con le repliche di Francesco Trinchera (con l’opuscolo anonimo La quistione napoletana. Ferdinando di Borbone e Luciano Murat) e di Aurelio Bianchi Giovini e con le controrepliche di De Sanctis (La quistione napoletana, in Il Diritto, 23 ottobre 1865; Bianchi Giovini e il murattismo, ibid., 26 ottobre 1865) e nuove risposte di Trinchera e altri. Dalla ‘quistione napoletana’ il dibattito si era allargato alla ‘quistione italiana’. Nel 1856 anche Camillo Benso conte di Cavour pensò a una possibile sostituzione dei Borboni con Murat sul trono di Napoli, anche se come «mauvaise solution». Simile la posizione di molti democratici solo per uscire da una situazione insopportabile «ma…mantenendo le proprie rispettive tendenze individuali e di gruppo» (Galasso, 2007, p. 745).
La discussione riprese a fine maggio 1856, quando Murat formulò un programma di tipo confederativo; nell’ambito della controversia franco-inglese col governo borbonico, ostinato nel respingere l’invito a promuovere riforme nel campo della giustizia, i murattiani cercarono di fomentare un moto nelle province del Mezzogiorno sperando in un appoggio diplomatico e nello sbarco di forze militari (L’unità italiana e Luciano Murat re di Napoli, 1856). Dall’altra parte sembrò che alcuni democratici fossero pronti a una sollevazione nel Sud per impedire la soluzione murattista, con ‘bandiera neutra’, unendo uomini di ogni partito, monarchico o repubblicano, liberale o democratico (Berti, 1962, pp. 676-678). Giuseppe La Farina a sua volta pubblicò ai primi di settembre l’opuscolo Murat e l’unità italiana, che prospettava l’unità sotto la monarchia dei Savoia, provocando la risposta di Trinchera a sostegno di Murat non più come soluzione di compromesso ma come missione contro l’Austria per un’Italia rigenerata.
L’infausta impresa di Sapri (1857), intrapresa da Carlo Pisacane, fu anche il riflesso di questa situazione. La maggior parte dei liberali e moderati vedeva ora nel murattismo una complicazione dell’idea nazionale che, in caso di insuccesso, avrebbe rafforzato il regime borbonico. L’unione degli Stati era possibile solo col motto «Italia e Vittorio Emanuele». Con gli accordi di Plombières (1858), che prospettavano la divisione della penisola italiana in tre Stati, era tuttavia previsto che Murat regnasse nel Mezzogiorno. Nella delicata fase 1859-60 tale ipotesi trovava spazio grazie alla reticenza ad accettare riforme liberali da parte del nuovo re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, e al diffuso entusiasmo per la guerra nazionale. Ciò nonostante alcuni dei potenziali sostenitori degli anni precedenti presero posizione a favore della soluzione filosabauda. Alla vigilia della spedizione dei Mille, Saliceti rimase tra i pochi fedeli a Murat che, di fronte al prevalere della soluzione unitaria sotto i Savoia, affermò di rinunciare a ogni rivendicazione, lasciando agli Italiani libertà d’azione; le mene murattiste ripresero invece all’improvviso e Murat ribadì i suoi diritti (Lettre en italien du prince L. M. concernant ses droits au trône de Naples, da Buzenval, 25 novembre 1860). Nel marzo 1861 si scagliò contro Vittorio Emanuele II, colpevole di avergli sottratto il ‘suo’ trono, e contro i Piemontesi. Il 15 giugno 1862 riprovò a candidarsi re.
In quanto all’adesione alla massoneria, Murat si iscrisse a quella francese da giovinetto in Austria. Il 9 gennaio 1852, i membri del Consiglio del gran maestro per salvare l’obbedienza gli proposero la carica di gran maestro del Grande Oriente di Parigi. Egli, obbedendo agli ordini di Luigi Napoleone, ancora presidente della Repubblica, accettò. Fu eletto quindi per motivi politici e non per qualità massoniche, essendo le logge francesi ostili all’Impero e, soprattutto in provincia, quasi tutte di fede repubblicana. Volendo piegarle alle esigenze imperiali, egli esercitò una gestione autoritaria: fece votare la Costituzione del 1854, che dava al gran maestro ampi poteri, e creò la Società civile per l’edificazione del Tempio della massoneria francese di rue Cadet, la cui costruzione avrebbe creato gravi problemi finanziari. Nel 1859 entrò in disaccordo con la maggioranza dei membri del Grande Oriente a proposito dell’Unità d’Italia e nel 1861 in Senato votò in favore dell’emendamento per chiedere all’imperatore il mantenimento del potere temporale del papa, scelta che fu attaccata da un giornale parigino di framassoni. Egli reagì proibendo l’uscita del giornale e sospendendo l’articolista. Avendo la massoneria deciso di togliergli il titolo di gran maestro, fece intervenire la polizia per impedire ai fratelli l’elezione di un successore prima dell’ottobre; in seguito alla protesta, ne espulse alcuni e poi agì arrogandosi diritti di intervento che non gli erano riconosciuti. La carica fu offerta al cugino, principe Gerolamo Napoleone, che accettò. Murat, adirato, lo sfidò a duello, ma l’episodio rientrò; dovette però dimettersi, su richiesta di Napoleone III, da gran maestro il 29 luglio 1861. L’ostilità dell’imperatore lo condannò all’inattività.
Nel 1870 entrò nell’esercito sotto il maresciallo François Achille Bazaine: era con lui quando la città di Metz capitolò e fu fatto prigioniero di guerra. Con la caduta dell’Impero si ritirò a vita privata. Malato di gotta, non rinunciò a una vita gaudente: trascorreva tutte le serate alle Folies Bergère, dove doveva essere portato a braccia a causa dell’infermità.
Morì a Parigi il 10 aprile 1878.
I cinque figli attuarono strategie matrimoniali tali da essere legittimati tra la nobiltà e l’alta borghesia europee e statunitensi: Carolina Letizia andò in moglie prima al barone francese Charles de Chassiron e in seconde nozze al ricco americano John Lewis Garden; Gioacchino Giuseppe Napoleone, maggiore generale dell’esercito francese, sposò Malcy Louise Caroline Berthier de Wagram, nipote del maresciallo Louis-Alexandre Berthier e in seconde nozze l’inglese Lydia Hervey; Anna sposò Antoine de Noailles duca di Mouchy; Carlo Luigi Napoleone Achille sposò la principessa Salomé Dadiani di Mingrelia; Luigi Napoleone sposò Eudoxie de Somov.
Fonti e Bibl.: Oltre alle fonti archivistiche citate da F. Bartoccini, Il murattismo. Speranze, timori e contrasti nella lotta per l’unità italiana, Milano 1959, gli archivi parigini (Parigi, Archives nationales, AP29, Archives Murat, 31, in partic. 31AP 62) conservano documenti sul murattismo, tra cui una lista di adepti ed «ex simpatizzanti classificati in base agli orientamenti politici scaturiti dopo l’Unità», segnalati in V. Lisi, L’Unità e il Meridione. Nicola Mignogna (1808-1870), Coper-tino 2011, p. 50. Di Murat restano lettere-proclami tra il 1854 e il 1862. Si fa riferimento a lui e alla relativa corrente politica in quasi tutte le opere sul periodo post 1849-1861, senza dargli grande importanza, mentre la stampa periodica in genere, di vario colore politico, fu più attenta. Sulla famiglia Murat, J. Valynseele, Le sang des Bonaparte, Paris 1954. Sugli anni giovanili C.E. Macartney – G. Dorrance, The Bonapartes in America, Philadelphia 1879, pp. 132-135; L. Murat Rasponi, Souvenirs d’enfance d’une fille de Joachim Murat. 1805-15, Paris 1929, pp. 5, 22, 53-55, 344 s.; sulla sorella Luisa, M.F. Mellano, Documenti vaticani su alcuni membri della famiglia Murat (1839-40), in Rassegna storica del Risorgi-mento, luglio-settembre 1977, pp. 264-277. Per i rapporti con l’Impero: E. De Rienzo, Napoleone III, Roma 2010, ad indicem. Sul murattismo: M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli. Episodi dal 1849 al 1860, Milano 1912; M.V. Gavotti, Il movimento murattianodal 1850 al 1860. L. M., Roma 1927 e il sempre attuale e fondamentale, anche per fonti e bibliografia: F. Bartoccini, Il murattismo … cit.; G. Brancaccio, Note sul murattismo, in Prospettive Settanta, 1982, n. 2, pp. 182-199; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, Torino 2007, p. 745; V. Lisi, L’Unità … cit., pp. 49 ss.; sulla polemica desanctisiana degli anni 1855-56: E. Cione, Francesco De Sanctis contro il murattismo, Bari 1934, pp. 41 ss.; utili le opere di A. Saliceti, Scritti editi e inediti, a cura di P. Di Attilio, Milano 1991, che integra l’opera Scritti inediti di A. Saliceti, Torino 1864, e Id., Il costituente. Il politico. Scritti editi e inediti, a cura di P. Di Attilio, Roma 2004. Per i rapporti di altri schieramenti politici con i murattiani: G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgi-mento, Milano 1962, pp. 676-678; G. Greco, La cospirazione mazziniana nel Mezzogiorno. 1853-57, Salerno 1979, p. 4. Tra i denigratori: M. Minghetti, Miei ricordi,III, Torino 1890, pp. 158, 162, 166. Per il quadro internazionale: F. Curato, Il Regno delle Due Sicilie nella politica estera europea (1830-59), Palermo 1995. Per il ruolo avuto da Murat nella massoneria: E. Ravvitti, Dellerecenti avventured’Italia, Venezia 1864-65, pp. 369, 451; Histoire de la franc-maçonnerie en France, a cura di A. Ricker – J.A. Faucher, Paris 1989, pp. 304-312.